Davanti ai mostri sacri come Niels Liedholm, Nereo Rocco o Arrigo Sacchi c’è Lui. Con 795 panchine è l’allenatore con più presenze in serie A. Carletto Mazzone è un’icona del calcio italiano anche oggi che non è più sul campo: è amato da chiunque mastichi un po’ di pallone e soprattutto da chi ha apprezzato la Serie A degli anni ’70, ’80 e ’90.
Quelli erano anni particolarmente belli, in cui il calcio era ancora genuino e il nostro campionato rispettato ed ammirato ovunque. Decenni resi più umani proprio da personaggi come lui, Sor Carletto da Trastevere, l’allenatore che ci ha fatto vivere momenti indimenticabili, infarciti di quel sano provincialismo che in fondo piace un po’ a tutti gli appassionati.
Quei trent’anni coincidono probabilmente con il periodo più prolifico del calcio italiano, durante i quali si avvicendarono grandi storie e grandi uomini, da Maradona a Van Basten, passando per Totti e Roberto Baggio; campioni come non ce ne sono più, in grado di lasciare una traccia indelebile nel nostro calcio e far innamorare ed appassionare milioni di persone.
Senza un po’ di Mazzone non puoi fare Wenger (cit. Francois Zahoui)
Metodo e caparbietà
Romano doc, nato e cresciuto a Trastevere, il quartiere più autentico della capitale, Mazzone ha vissuto una carriera fatta di alti e bassi, accesissime rivalità, dolorose lontananze e tanto ardore, a partire dai derby con la Lazio fino alla mitica corsa sotto la curva dell’Atalanta.
Stiamo parlando di un personaggio sanguigno con idee chiare e pochi fronzoli e che amava il lavoro e la dedizione. Ad Ascoli e a Firenze collaborò con Carlo Vittori, di mestiere preparatore ma di indole combattente, esattamente come Mazzone. Durante gli anni d’oro di Ascoli, Carletto allenò gente come Bruno Giordano, Anastasi, Dirceu e Casagrande. E rese quella squadra ambiziosa e sfacciata; ragazzi testardi, che al termine di una stagione indimenticabile riuscirono ad ottenere la Serie A facendo tesoro degli insegnamenti del loro Mister, un uomo caparbio che non ha mai mollato un centimetro.
Nonostante nel curriculum di Mazzone manchino Scudetti e Champions League, non mancano le imprese, né alcuni valori imprescindibili, come l’umanità, la riconoscenza e la sportività. Ed è per questo che è sempre stato rispettato da tutti, avversari compresi. Il suo era un calcio ruspante, sano, essenziale, probabilmente meno raffinato rispetto a quello di Sacchi, Liedholm e Zeman, ma interpretato con quella concentrazione e quel sacrificio che è impossibile non apprezzare.
Il calcio di provincia che lui sapeva mettere sul campo meglio di chiunque altro era fatto di difesa e contropiede, senza tirare indietro la gamba. Le sue squadre erano un mix di gregari che sudavano la maglia e campioni come Baggio, Pirlo, Totti e Hubner, che con le loro giocate erano in grado di risolvere una partita. Un calcio maschio, difensivista, ma anche spregiudicato, quando c’era da rincorrere nel risultato. Mazzone fu spesso salvifico per i suoi tifosi, ma anche distruttivo per gli altri. Impossibile dimenticare il 14 maggio del 2000, quando il suo Perugia sconfisse la Juve per 1 a 0 su un campo ai limiti della praticabilità, assegnando di fatto lo scudetto alla Lazio. Era l’ultima di campionato e Carletto fu terribilmente spietato, ma solo in nome di una professionalità che alle sue squadre non ha mai fatto difetto.
La tecnica è il pane dei ricchi, la tattica è il pane dei poveri [Carlo Mazzone]
Un carriera fatta di battaglie
Gli scudetti di Mazzone sono le promozioni e le salvezze ottenute sui difficili campi di provincia, affrontando piazze infuocate e rivalità mai sopite. Un allenatore proletario, che ha vissuto una carriera lunghissima e colma di intrecci e colpi di scena, fatta appunto di una romantica sintesi di polvere e sudore.
Mazzone ha allenato gente come Conte e Guardiola, insegnando loro il significato della parola sacrificio, il valore delle motivazioni, le uniche cose realmente in grado di tracciare un solco con gli avversari. Dei due, Conte è quello che gli somiglia di più. Guardiola, invece, è il suo opposto, ma anche l’allievo più affezionato: non mancò di invitarlo a Roma in occasione della finale di Champions del 2009, quando era alla guida del Barcellona.
Del resto Mazzone ha sempre suscitato sentimenti forti: simpatia, affetto, familiarità.
E poi c’è il rapporto con Roberto Baggio, il suo “figlioccio”. Carletto fu l’unico che riuscì a capirlo fino in fondo e che seppe corteggiarlo portandolo a Brescia più sulla fiducia che su un progetto sportivo in grado di andare oltre la salvezza. Seppe gestirlo con serenità ed intelligenza, regalando al calcio alcune delle pagine più emozionanti di sempre.
Dell’arrivo di Baggio a Brescia, ha raccontato Emanuele Filippini che un giorno Mazzone si presenta nello spogliatoio con un foglio in mano dicendo: “qui c’è scritto il nome di un calciatore che se decide di venire a Brescia può fare quello che vuole e voi tutti zitti”…
Ed è sua la paternità di quell’intuizione che ha portato Pirlo a giocare davanti alla difesa rendendolo il Maestro che poi abbiamo conosciuto. E’ stato il modo per far coesistere l’alba ed il tramonto di due geni del calcio italiano, appunto Andrea Pirlo e Roberto Baggio. Ed è stato ancora il modo per regalarci uno dei gol più belli nella storia della Serie A. Senza esagerare, guardare per credere:
[Mazzone su R. BAGGIO] Era puntuale, serio e la domenica mi faceva vincere
Uno dei gol più belli di sempre in Serie A
Il Cult di Brescia-Atalanta
“Mi ricordo che in un Brescia-Atalanta andò sotto la curva e pensai: ‘ Cosa ci faccio qua?”
Cit. Pepe Guardiola ripensando a quel pomeriggio di settembre del lontano 2001.
Poteva essere la classica partita aperta di inizio campionato quando ancora i punti non sono pesantissimi e le squadre se la giocano a viso aperto. E per certi versi così è stato.La partita la sblocca Baggio che fa 1-0 per il Brescia ma l’Atalanta a quel punto si sveglia e ne fa 3 mandando in gol Sala, Doni e Comandini.
Sembra a quel punto tutto in ghiacciaia, tanto che i tifosi bergamaschi si sentono al sicuro e continuano ad intonare sfottò all’indirizzo di Mazzone e precisamente sulla sua romanità e su una presunta madre di facili costumi.
Lui sente e, almeno ad occhio nudo, resta impassibile anche se in realtà è in quei momenti che confida al suo secondo Menichini “Non ci vedo più, mi stanno facendo impazzire di rabbia”….
Nel cuore del secondo tempo ancora Baggio riaccende le speranze di rimonta con il gol del 2-3, rianimando Mazzone il quale racconterà che a quel punto guarda verso la curva nerazzurra gridando: “se pareggiamo vengo sotto la curva” ovviamente esclamato in romanaccio. Ed è proprio nei minuti di recupero che arriva da una punizione di Baggio l’autogol del difensore Rinaldi che insacca la propria porta per il definitivo 3-3.
E’ tempo di vendetta, Mazzone dimentica di avere 64 anni ed inizia una corsa in solitaria al grido di “Li mortacci Vostri, Li Mortacci Vostri…”
Qualcuno prova a trattenerlo ma è impossibile fermare la corsa goffa del Mazzone rosso di rabbia che arriva fin sotto quella curva a fare il suo show prima di essere espulso da Collina e di consegnarci un minuto di cinema Cult.
Ho conosciuto la “Veronica” di Zidane e rimasto stregato dal Superclasico di Buenos Aires . Seguo più gli eventi sportivi da divano che quelli mondani da drink in mano.
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